Ashmore Reef

Settimana 124

dal 10/10/99 al 16/10/99

Domenica

Alle prime luci dell’alba vediamo i primi spruzzi delle onde (sono onde lunghe provenienti da dove c’è vento!) che frangono sulla barriera di Ashmore Reef. C’è un leggero vento da sud ovest, ma andiamo a motore, mentre le barche da pesca indonesiane, ne incontriamo 4 o 5, vanno a vela sfruttando abilmente ogni minimo refolo.

La passe è larga, poi ci facciamo strada tra innumerevoli teste di corallo fino all’ancoraggio, dove c’è una barca canadese che se ne sta andando, una barca di pescatori ed un motor-yacth.

Il posto è splendido, un unica isoletta di sabbia bianca lunga 200 metri, circondata da chilometri di reef. La laguna è piena, nel vero senso della parola, di tartarughe e….serpenti!

Un ora dopo di noi arriva una coppia di austriaci (Hans e Karin del Mopepo) che abbiamo conosciuto a Darwin e che sono partiti lo stesso nostro giorno. Poi il ranger viene a farci visita e ci spiega con estrema professionalità il regolamento del parco. Asmore Reef appartiene all’Australia, sull’isola è vietato abitarci e anche il ranger vive su una barca a motore. Poi ci sono elencati i nostri doveri: una lunga e infinita lista di divieti.

 Riassumendo non possiamo fare praticamente niente. Non possiamo pescare, non possiamo raccogliere conchiglie anche se morte, non possiamo andare a terra se non in un fazzoletto di spiaggia, e solo tra l’alba ed il tramonto, non possiamo nuotare se non nell’area dell’ancoraggio.

Il ranger è olandese e prima di diventare ranger faceva il giramondo in barca come noi, e alla fine ci fa capire che anche a lui tutte queste regole gli sembrano troppe ma non ci si può fare niente.

A Darwin ci avevano detto che l’isola era piena di clandestini in ’attesa di essere portati in Australia “Non andate la ci sono 700 rifugiati politici” ci avevano detto. In realtà qui non c’è nessuno, ma il ranger ci dice che mediamente arriva una navetta ogni settimana e per lui è una gran scocciatura. Vengono dall’Indonesia ma per lo più sono curdi o iracheni che hanno investito tutti i loro averi per raggiungere l’Australia da clandestini e una volta sbarcati si dichiarano rifugiati politici.

La navetta con cui arrivano è requisita e affondata dalla marina australiana e la gente è portata in un centro di accoglienza che si trova in mezzo al deserto (per evitare fughe!). Li subiscono un processo e a meno che non riescano a dimostrare di essere realmente dei perseguitati politici, sono rispediti nei paesi di origine.

Poi ci racconta della fauna locale. Le tartarughe (leatherback) vengono qui a riprodursi e ora è proprio il periodo dell’accoppiamento, quindi sono talmente occupate che si lasciano avvicinare. Ce ne sono centinaia e spesso ce le troviamo a pochi metri dalla barca.

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Di serpenti ce ne sono 35.000 (chissà come hanno fatto a contarli i precisi australiani?) di ben 25 specie differenti. Quasi tutti mortalmente velenosi.

I serpenti nuotano in apnea, quindi periodicamente si vedono le loro testoline spuntare, prendono aria e poi si rituffano. Inoltre, ci dice, sono molto curiosi e spesso si avvicinano per vedere o dare una leccatina giusto per capire di che specie sei.

In realtà i serpenti non sono pericolosi, hanno i denti all’interno della bocca e anche volendo potrebbero mordere solo cose piccole come le dita delle mani o dei piedi o le orecchie. Quindi basta nuotare con le pinne, con le orecchie sotto l’elastico della maschera e con le dita delle mani strette a pugno!

Più per il caldo, ci sono 36°C, che per il coraggio ci buttiamo in acqua stando con le mani serrate a pugno. Lo spettacolo è fantastico! In una sola occhiata vediamo ben 5 grosse tartarughe che si lasciano inseguire senza degnarci di uno sguardo.

Di serpenti ce ne sono tantissimi, per lo più serpenti corallo dalle tipiche strisce gialle e nere. Hanno le tane nella sabbia o tra le rocce e periodicamente se ne escono e tornano in superficie a respirare. Anche loro, per fortuna, ci ignorano e dopo un po’ la tensione si allenta, ci facciamo l’abitudine ed il sangue torna a circolare nelle mani!

Aperitivo sul Mopepo, poi distrutti al tramonto siamo già a letto.

Lunedì

La nostra intenzione era di scendere a terra all’alba, alla fine del coprifuoco, per rubare qualche immagine delle tartarughe che hanno deposto le uova. Poi la stanchezza, la pigrizia ed il fatto che a causa della marea dobbiamo lasciare il gommone molto distante e camminare ci fanno arrivare alla spiaggia solo alle 8. Le tartarughe se ne sono già andate da un pezzo, rimangono le loro tracce, e la buca dove hanno deposto le uova.

Il cielo si sta coprendo e neanche a farlo apposta, ora che siamo fermi c’è anche un bel vento!

Per tutta la giornata facciamo i “guardoni” standocene in appostamento con il teleobbiettivo puntato sulle tartarughe che si accoppiano.

Invitiamo per l’aperitivo Karen ed Hans e per l’occasione apriamo la prima bottiglia di birra fatta in barca. E’ buonissima, fa una bella schiuma e sembra birra vera. Siamo molto soddisfatti.

Martedì

Questa notte ci siamo svegliati sentendo un urto contro la barca. Siamo usciti fuori allarmati e con un potente faro abbiamo cercato nel buio la causa del rumore.

Si intravedeva la grossa corazza e le pinne che sbattevano sull’acqua a un metro dallo scafo. Poi col faro abbiamo visto meglio, gli occhi languidi della tartaruga erano rivolti verso di noi, qualche secondo, poi se ne è andata rispuntando qualche metro più in là.

E’ quasi l’alba ci facciamo un caffè e ci godiamo lo spettacolo: tartarughe che scorazzano, serpentelli colorati che emergono dalla superficie alzando la testa per prendere aria oltre ad un’alba con colori di fuoco. Il tempo sembra migliorato e oggi faremo rotta verso l’Indonesia. Il ranger ci ha fatto una “mappa” che ci dovrebbe consentire l’uscita dal labirinto di coralli anche senza aspettare che il sole sia alto e la visibilità ottimale.

Alle 7 salpiamo l’ancora e con la luce bassa e negli occhi, piano piano usciamo seguendo le indicazioni della mappa. In qualche modo ne veniamo fuori, anche se per un paio di volte siamo costretti a delle precipitose marcia-indietro, per evitare di finire tra i coralli.

Vicino alla passe sono ancorate una nave militare e una barca di legno da trasporto con la prua alta e allungata. Ieri sera il ranger ci aveva avvertito “Devo uscire fuori in mare perché è stata avvistata una barca di clandestini”.

La barca dei clandestini non è molto grande, ma i visi scuri e tristi che si intravedono sono moltissimi [sapremo poi che erano 150]. Chissà quanti di questi disperati riusciranno a farsi accettare in Australia!

La navigazione è piacevole, teniamo lo spinnaker fino al tramonto, poi mettiamo il genoa per maggiore tranquillità.

Mercoledì

Avvistiamo un paio di navi militari durante la notte. Nessuna chiamata alla radio e nessun segnale da parte loro.

Il nostro permesso di navigazione (obbligatorio in Indonesia) prevedeva l’arrivo a Timor, ma non ci sembra il caso e così decidiamo di arrivare a Pupu Sawu, una piccola isoletta con un villaggio dove sembra che non si fermi mai nessuno.

Avvistiamo l’isola all’alba. Fino alla fine siamo indecisi se passare nel canale che c’è tra Pupu Sawu ed una piccola isoletta. Non abbiamo la carta dettagliata e sappiamo che nei canali tra le isole le correnti di marea sono fortissime.

Arrivati nelle vicinanze il vento cala e la scelta cade sul canale tra le due isole che ci fa risparmiare qualche miglia a motore. Nel canale c’è molta corrente, a volte contraria e a volte a favore, e si formano delle onde ripide. Il fondale è sufficiente e passiamo senza problemi. Ci passa accanto una barca di pescatori, salutano e se ne vanno. Alle 14 ci ancoriamo davanti al villaggio di Seba, di fianco ad un molo che ospita un paio di barche da cui stanno scaricando svariate mercanzie.

Fa un caldo bestiale, così rimandiamo la discesa a terra ed il primo contatto con gli indonesiani.

Lorenzo ne approfitta per dare un’occhiata al motore. C’è una perdita di acqua di mare e dopo un po’ di osservazione si scopre il colpevole: è un raccordo di rame, dove entra l’acqua di raffreddamento nel riduttore.

Per smontarlo bisogna dissassemblare il giunto elastico, il che vuol dire una bella sauna, con 35 gradi. A metà dell’opera Annalisa mette la testa fuori dal tambuccio.

“Sta arrivando una nave militare indonesiana”
“Non abbiamo neanche il permesso, chissà quante storie ci faranno!”
“Bhe, abbiamo realmente un problema al motore, Lorenzo vieni fuori con le mani sporche, così capiscono”

Dopo un quarto d’ora arrivano in gommone. Sono tutti giovani, ci sorridono e il responsabile parla inglese. Sono gentili, non ci chiedono né permessi né documenti, vogliono solo sapere da dove veniamo e se va tutto bene.

“Abbiamo una perdita d’acqua al motore e la stiamo sistemando” “Noi siamo in partenza, ma se possiamo fare qualcosa molto volentieri” ci risponde l’ufficiale
“Grazie, ma abbiamo già individuato la perdita e dovremmo riuscire a fare una riparazione di emergenza” “Buona fortuna e se avete bisogno chiamateci sul WHF”

In Australia avevamo sentito racconti da brivido sui militari corrotti che chiedono soldi e si installano a bordo fino a che non sono soddisfatti. O siamo stati fortunati o agli australiani piace avere qualcosa da raccontare quando si scolano le pinte di birra.

Smontato il raccordo scopriamo che si è corroso. Facciamo una “medicazione” di fortuna con una fasciatura di garza e resina epossidica nella speranza che tenga fino a Singapore dove troveremo un centro di assistenza Volvo.

Ormai si è fatto tardi, rimandiamo a domani la prima esplorazione.

Dopo cena ad una ad una si accendono centinaia di luci nel mare tutt’attorno a noi. Sono i pescatori che con le lampade a carburo attraggono pesci e calamari nelle loro reti. E’ uno spettacolo incredibile!

Giovedì

La resina ha catalizzato, rimontiamo il raccordo. La riparazione ha avuto successo, la perdita è scomparsa e sollevati possiamo scendere a terra a vedere com’è l’Indonesia.

Lasciamo il gommone sulla spiaggia e ci incamminiamo verso uno spiazzo dove c’è un grosso mercato. Ci viene incontro un ometto con un bambino in braccio. Parla inglese, fa il professore di fisica alla locale scuola superiore e si offre di farci da guida.

Il suo vocabolario è molto basico e anche quando non capisce ci risponde “si” così dobbiamo fargli una controdomanda “trabocchetto” per verificare cosa ha capito.

Si avvicina una donna con un gran sorriso e la borsa piena di “ikat”, le tele tipiche di queste isole, tessute a mano con complessi disegni tramandati da madre in figlia. Lei parla solo indonesiano e noi siamo riusciti a memorizzare solo quattro parole, si (ya), no (tidak), buono (bagus), e calamari (ciumi ciumi), troppo poco per conversare.

Incurante di ciò si concentra a ripetere un discorso probabilmente imparato a memoria che tesse le lodi degli ikat che ci vuole vendere. Solo quando Annalisa le fa capire che non abbiamo rupie, ma che i suoi ikat sono splendidi, si arrende e ci lascia andare.

Come saliamo le scale del moletto rimaniamo stupiti dal brulicare di gente, non ne siamo più abituati. Pur sapendo che l’Indonesia è molto popolosa, non ci aspettavamo di trovare tanta gente su questa isoletta sperduta. Gente che va e viene lungo il molo con dei grossi sacchi sulle spalle, altri seduti per terra con il proprio mucchietto di cose da vendere. Sembrano ignorarci completamente!

Qualcuno ha dei pomodori, altri del pesce secco o dei mucchietti di peperoncino.  Molti vendono delle bottiglie con all’interno del liquido giallo denso. E’ una sostanza zuccherosa che i locali estraggono dai fiori di particolari palme che riescono sopravvivere all’arsura di questa isola. La nostra guida ci spiega che questa sostanza zuccherosa è l’alimento principale di queste popolazioni a condimento del riso o con i manghi.

Lasciamo il mercato e ci incamminiamo per il “corso” principale del villaggio, anche questo brulicante di gente. Noi siamo un po’ timorosi, dato che non abbiamo il permesso, che qualche ufficiale di polizia ci chieda qualcosa. Probabilmente perché l’inglese non è così diffuso, pur passando davanti all’ufficio di polizia, nessuno ci chiede i documenti (siamo gli unici forestieri sull’isola e quindi ben visibili).

Lungo la strada una serie di baracche con il tetto di lamiera e le pareti di compensato. La parte frontale è adibita a negozio mentre il retro è la vera e propria abitazione. Davanti alle case, nelle zone d’ombra ci sono dei bassi tavoli su cui le persone stanno stese a chiacchierare, a mangiare o a dormire.

La merce esposta nei negozi è sempre la stessa, per lo più cianfrusaglie cinesi e le immancabili bottiglie di sostanza zuccherosa. A noi serve del gasolio (solar in indonesiano)  che qui costa pochissimo, 200 lire al litro! Prendiamo accordi con una grassa signora che siede davanti ad una fila di fusti luridi per tornare nel pomeriggio a riempire tutte le nostre taniche vuote.

Lungo il “corso” la nostra guida ci presenta il professore di inglese della scuola, lui per fortuna parla un inglese comprensibile e dato che qui l’inglese non lo parla nessuno, ha molta voglia di chiacchierare. Ci invita ad andarlo a trovare nel pomeriggio.

La temperatura è salita considerevolmente e, prima di scioglierci, pensiamo bene di fare ritorno in barca per passare le ore più calde al fresco della brezza. Compriamo un paio di chili di pomodori, dei vegetali che sembrano cetrioli,  dei manghi e torniamo in barca dando appuntamento al nostro amico per il pomeriggio.

Alle 15, torniamo al villaggio con le taniche, però prima di riempirle andiamo a fare visita al professore di inglese. Passiamo il pomeriggio con lui, sul basso tavolo davanti alla sua casa. Ci insegna qualche parola di indonesiano, e davanti ad un piatto di mango verde ed una ciotolina di sostanza zuccherosa (è una melassa molto dolce, ma con il mango verde è buona!) ci racconta le loro tradizioni e la loro vita. Noi per ricambiare, gli raccontiamo le nostre.

Poi gli chiediamo se ci accompagna a vedere le rocce megalitiche, che stanno appena fuori dal villaggio. Ci risponde che ora è già tardi, ma  a noi sembra una scusa. Quella è la zona degli animisti, una tribù che ha mantenuta l’antica religione invece di convertirsi al cattolicesimo o all’Islam, ed evidentemente sono dei miscredenti con cui non avere niente a che fare.

Si è fatto tardi, siamo attesi dall’altro professore e dobbiamo riempire le taniche di gasolio. Il professore di fisica ci sta aspettando insieme alla moglie, entrambi con il vestito della festa. Ci invitano nella loro modesta baracca per un tè caldo, che qui servono insieme alla melassa e diventa un intruglio dolcissimo.

La nostra guida cerca faticosamente di spiegarci che sia lui che la moglie non sono di  Pupu Sawu, ma di Java e ci fanno capire che considerano i locali dei provinciali e non vedono l’ora di tornare a casa.
Mettiamo in pratica l’indonesiano appreso nel pomeriggio e con molta fantasia e immaginazione, riusciamo ad imbastire qualche spezzone di conversazione anche con la moglie.

E’ tempo di tornare in barca, salutiamo e andiamo a riempire le taniche. E’ la stessa donna con cui abbiamo preso accordi questa mattina che ci travasa il gasolio da un grosso barile alle nostre taniche con un tubo di gomma. Per innestare il sifone si mette un tubo in bocca e come se stesse bevendo una coca cola con la cannuccia, per niente schifata, succhia gasolio riempiendosi la bocca, poi invece di sputarlo per terra, se lo sputa sulle gambe e lo spande come fosse una crema. Che sia meglio dell’Autan per allontanare le zanzare?

Per fortuna ci aiutano con un carretto a trasportare le taniche fino al molo. Troviamo che il nostro povero gommone è stato usato dai bambini dell’isola come nuovo divertentissimo gioco,  saltarci sopra, riempirlo di sabbia, trascinarlo in giro. Grrrrrr che rabbia!

Venerdì

Che facciamo? Andiamo a vedere le rocce megalitiche o andiamo a Rinca? C’è un bel venticello e la visita alle rocce ci porterebbe via un intero giorno, propendiamo per un giorno in più nel parco nazionale di Komodo e Rinca che ospita i famosi draghi di Komodo, dei lucertoloni carnivori lughi più di 3 metri.

Appena lasciata l’isola, il vento cala e ci trasciniamo per tutto il giorno a 3 nodi, ma non abbiamo fretta, tanto per questa sera non riusciamo ad arrivare.

Sabato

La notte passa tranquilla con la luna piena che illumina l’alta costa di Flores che ci scorre minacciosa a dritta. Alle 4 un grande nuvolone nero si avvicina, sembra che debba scatenarsi il finimondo, tuoni e fulmini lampeggiano vicini, riduciamo le vele e aspettiamo. Non succede niente il nuvolone si dissolve e ci porta via il poco vento che c’era.

Percorriamo le ultime 10 miglia a motore e alle 10 entriamo nello stretto passaggio tra Nusa Kode (nusa significa isola!) e Rinca che conduce all’ancoraggio.

La guida ci dice che sulla spiaggia è facile vedere scimmie e draghi e a giudicare dal paesaggio spettrale ci potrebbero essere anche le streghe!

L’acqua del fiordo è fonda di un bel blu intenso, che però non invita a fare il bagno. Le montagne che circondano il fiordo sono ricoperte di boscaglia fitta e impenetrabile nelle valli, mentre le creste sono aride e ricoperte di erba secca.

Ci ancoriamo davanti alla spiaggia. La forte corrente gioca con la nostra barca e ci fa girare in tutte le direzioni e fa stridere la catena sulle rocce del fondo.

Il silenzio è rotto solo dall’ululare del vento che si incanala lungo le valli, dai fischi degli uccelli e dagli urli delle scimmie che si rincorrono sulla spiaggia e sugli alberi. Il grosso nuvolone nero che campeggia fisso sul cucuzzolo che sormonta la baia contribuisce ad aumentare il clima spettrale che circonda questo posto.

Con il binocolo iniziamo a scandagliare la boscaglia alla ricerca dei draghi, ma evidentemente se ne stanno ben nascosti, perché non vediamo niente, a parte le scimmie schiamazzanti e qualche timido cervo.

Prima di sera, prendiamo il coraggio a due mani e sbarchiamo con l’intenzione di tendere una trappola ai draghi. Appendiamo la carcassa di un tonno pescato in mattinata al bastone infilato nella sabbia in una radura aperta in modo che sia ben visibile dalla barca.

La boscaglia è fittissima e sembra sempre che un drago debba spuntare da un
momento all’altro.

Con il machete ci siamo fatti un lungo bastone appuntito, in caso qualche drago ci si avvicini troppo. I lucertoloni sono carnivori e possono essere pericolosi. In gruppo sono in grado di tendere gli agguati ai bufali e di ucciderli a morsi.

Però ci hanno detto che non ci vedono troppo bene e con una bastonata sul naso se ne vanno, a patto che non sentano l’odore del sangue!

Un’aquila enorme ci sorvola, forse attirata dalla carcassa di tonno, mentre le scimmie poco socievoli sono scappate tutte impaurite. Chissà, forse da queste parti le cacciano per mangiarsele.

Sta arrivando il tramonto e nonostante neanche un drago si sia fatto vivo, pensiamo bene di rientrare e di controllare al sicuro della nostra barca con il faro.

Fino alle 9 continuiamo a illuminare la carcassa, ma non si è ancora fatto vivo nessuno, ce ne andiamo a dormire.