In Kalimantan alla ricerca degli oranghi.

Settimana 128 dal 07/11/99 al 13/11/99

Domenica

Calma di vento e cielo coperto e grigio, ma da ieri non abbiamo avuto neanche un temporale. Navighiamo a motore.

Lunedì

La notte scorsa è stata da incubo. Per caso, alla fine della cena Lorenzo alzando gli occhi nota delle boette bianche.

“E’ una rete, metti in folle!”

Appena davanti alla nostra prua un’interminabile fila di boette ci sbarra il cammino. Ci avviciniamo e con un potente faro illuminiamo.

“La rete è appesa alla corda delle boette, ma non si capisce a che profondità.”

“Guarda 2 serpenti corallo!”

Non abbiamo nessuna voglia di rimanere intrappolati con una rete nell’elica, seguiamo la lunga fila di boe tenendoci a rispettosa distanza. La  rete è lunga circa 5 miglia, e ha un riflettore radar alle estremità. Giusto il tempo per rilassarci un attimo e un’altra lunga fila di boette bianche ci sbarra il cammino. Questa è perpendicolare alla precedente e non abbiamo un idea su quale direzione prendere. Ci affidiamo al caso, andiamo a nord. La fortuna non ci assiste, è il lato più lungo e ci toccano altre 4 miglia di navigazione con il faro.

Ci fanno male gli occhi siamo stanchi, abbiamo sonno e quando arriviamo alla fine della seconda rete, un po’ fatalisticamente, mettiamo l’allarme al radar e andiamo a dormire. L’allarme suona solo un paio di volte e il resto della notte passa tranquilla.

Al mattino, prima ancora di avvistare terra, ci investe un intenso odore di terriccio umido e di fiori, come se fossimo entrati in una serra. La base di partenza per visitare il Tanjung Puting National Park è la cittadina di Kumai, che si trova 30 km all’interno della foce del fiume omonimo, quindi ci apprestiamo a imboccarne la foce che è piena di banchi di sabbia.

Quando siamo ad un miglio dalla prima boa del canale di ingresso ci investe un groppo potentissimo, è il primo vento che abbiamo da quando siamo partiti, togliamo tutte le vele e per 10 minuti deriviamo sotto un vento fortissimo e una pioggia fitta e pesante. Con il motore cerchiamo di tenere la prua al vento per evitare di scarrocciare e finire nelle secche. L’acqua è alta appena 4 metri e si formano subito delle onde ripide e rompenti.

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Passato il groppo il vento muore e avvolti in un intensissimo odore di terra  entriamo nel fiume. L’acqua è marrone, piena di detriti e di tronchi e le rive sono coperte da una fitta jungla di mangrovie. Seguiamo tutte le indicazioni della guida e dopo quasi 3 ore avvistiamo un inaspettato addensamento di barche sulla riva alla nostra sinistra del fiume. Le barche sono tutte a forma di “babbuccia”, sono ormeggiate in doppia e tripla fila o a spina di pesce e sono in attesa di caricare i tronchi provenienti dall’interno della foresta. Dietro un’estesa cittadina con almeno 5 moschee con le loro cupole dorate. Siamo sorpresi, ci aspettavamo un villaggio più piccolo. Ci ancoriamo di fronte alla città, sulla riva opposta dove sono ancorati altri 3 barche a vela.

Stanchi e soddisfatti di aver fatto anche questa traversata, ci godiamo la vista bevendoci una birra in pozzetto. Ogni tanto una canoa di pescatori ci  passa vicino, ci salutano sorridendo con il classico “Hello Mister!!”. Sembrano molto più simpatici che a Bali, forse qui non sono ancora stati invasi dai turisti. Veniamo approcciati da un ragazzo, è Jien, fa’ la guida e organizza le spedizioni all’interno del parco. Ci dà alcuni particolari sul costo e la durata della spedizione e rimaniamo d’accordo di incontrarci domani per accordarci.

Al tramonto le zanzare arrivano come una densa nuvola. Ci barrichiamo immediatamente all’interno della barca, difendendoci con tutto quello che abbiamo; zampironi, spray insetticida, zanzariere. Siamo vicino ad una città, in Borneo la malaria è endemica, non abbiamo fatto la profilassi anti-malarica (ne abbiamo avuto abbastanza quando siamo andati in Africa, vedi diario), quindi prendiamo seriamente la questione.

Martedì

Grande dormita. Nonostante alle quattro i muezzin, fortemente amplificati e come al solito in concorrenza, ci svegliano con la loro cantatina mattutina. Le 3 barche se ne sono andate. Passiamo la mattinata a fare rifornimento di gasolio, che in Indonesia costa circa 200 lire al litro. E’ una bella sfacchinata: riempire le taniche, trasportarle in gommone, sollevarle in barca e travasarle nel serbatoio.

Quindi andiamo al mercato, come al solito in Indonesia colorito, pieno di verdure strane, ma anche sporco, puzzolente e pullulante di mosche. Le venditrici sono tutte donne, alcune con il chador altre con la faccia impiastricciata con della poltiglia bianca.

Ci immaginiamo chissà quale motivo mistico-religioso, invece è solo una maschera di bellezza per proteggere la pelle dal sole e sbiancarla. Al contrario che dalle nostre parti, in Asia essere abbronzate non è segno di salute, ma di povertà e basso livello sociale come le contadine. Torniamo con uno zaino stracolmo di verdura e di manghi, che sono dolcissimi e costano poco.

A mezzogiorno arrivano Margarita e Hoptoad. Ci accordiamo per noleggiare insieme due barche a fondo piatto per risalire il fiume. Una sarà occupata dall’equipaggio di Margarita, nell’altra staremo noi insieme all’equipaggio di Hoptoad. Prima di poter partire per il parco bisogna andare a Pangkalanbun, una città vicina, a fare le pratiche alla polizia e alla sede del parco.

Dobbiamo andare tutti perché la polizia “vuole vederci”, quindi ci stipiamo in un piccolo pulmino e percorriamo i quindici chilometri di strada piena di buche. Le pratiche sono lunghissime, fogli e fogli dattiloscritti, per fortuna siamo in molti e chiacchierando le due ore passano in fretta. Torniamo a Kumai in tempo prima del diluvio pomeridiano.

Mercoledì

Sveglia alle sette per andare, insieme ai due cuochi, a fare la spesa al mercato di Kumai. I cuochi non parlano inglese, ma sono esperti e conoscono le quantità di cibo necessario per 11 persone. In un paio d’ore ritorniamo alle barche carichi di borse e pronti a partire. Ci passano a prendere in barca e scaricano un ragazzo che sarà il nostro guardiano.

Dormirà all’esterno, la barca è chiusa, e farà la guardia per i prossimi 3 giorni. Noi siamo sicuri che come giriamo l’angolo se ne andrà a casa a dormire. Non si è portato né coperte né niente da mangiare, ma in ogni modo costa poco.

Inizia l’avventura! Ci sistemiamo in coperta della barca a fondo piatto (Klotok in indonesiano) e iniziamo a risalire un tributario del fiume.

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Siamo tutti di vedetta, pronti a scorgere i movimenti delle scimmie o dei coccodrilli ai lati del fiume. Per la prima ora la vegetazione è composta principalmente da palme poi gradatamente diventa più alta fino ad una vera e propria jungla. Ben presto scorgiamo le prime scimmie aggrappate ai rami degli alberi: sono gibboni, riconoscibili per il muso nero contornato di bianco. Il tragitto fino al primo campo dura un paio d’ore e quando arriviamo riceviamo l’accoglienza di Michel un simpatico gibbone. Scorrazza ovunque sulla barca alla ricerca di qualche nocciolina o di una coccola.

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Il pranzo e’ servito, il nostro cuoco ha approfittato del tragitto per prepararci dei deliziosi piatti locali.

Visitiamo il campo con Michel che ci segue, saltando da un ramo al braccio di uno di noi, ogni tanto ci precede, si nasconde e poi ci fa’ le imboscate alle spalle facendoci spaventare.

Davanti all’abitazione di uno dei ranger ci fermiamo ad ammirare un cucciolo d’orango femmina di due anni. E’ stata catturata dai bracconieri, che probabilmente hanno ucciso la madre, per poi essere venduta come animale domestico. Ora il giovane ranger se ne sta occupando giorno e notte per cercare di reintrodurlo nel suo ambiente naturale. Ha due occhi tenerissimi, ma ancora più tenerezza suscita il ragazzo per la cura e la dolcezza con cui tratta il piccolo. Con un biberon cerca di allattarla ma la piccola non ha fame e lui, come si fa’ con i bambini, cerca di distrarla per farla mangiare.

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Fa un caldo bestiale e le zanzare non danno tregua. Riprendiamo a navigare sotto la pioggia torrenziale, e quando raggiungiamo il secondo campo e’ già buio. Il programma prevede di cenare e andare nella foresta per vedere i funghi fluorescenti.

“Al buio nella foresta”.

Jan Juan fatica molto a convincerci, ma poi alla fine tutti partecipano alla spedizione. A parte queste strane lucine accese nel buio, la cosa veramente suggestiva sono i rumori e i versi degli animali che risuonano nel silenzio assoluto.

Il letto non è esattamente quello di un albergo a 5 stelle, i materassi sul pavimento bombato scivolano, ma le “mosquito nets” funzionano a meraviglia e siamo talmente stanchi che ci addormentiamo subito.

Giovedì

Alle otto raggiungiamo a piedi la “feeding station”, un piattaforma rialzata in legno sulla quale i rangers hanno deposto mucchi di banane.

“Rose marie!”

Tutti in coro ripetiamo questo nome, fino a quando la vediamo arrivare. Facendo evoluzioni da trapezista sui rami degli alberi arriva un bellissimo esemplare d’orango femmina con al collo il suo piccolo.

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Poi ne arrivano altri quattro. Rimaniamo a naso in su per più di un’ora scattando foto. Un volta sazi gli oranghi scorrazzano sugli alberi e i ruoli si invertono ora sono loro che ci osservano. Hanno uno sguardo così simile al nostro che si capisce l’origine del loro nome orang (uomo) utang (foresta) uomo della foresta in indonesiano.

Annalisa vede un piccolo accoccolato a terra e si avvicina un po’ per farsi fotografare. E questo che fa? Con grande stupore le va incontro e le mette le braccia al collo in un tenero abbraccio, come fosse un bambino.

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Subito il ranger lo prende e lo rimette su un albero. Non vogliono che gli oranghi si prendano queste confidenze, dicono che possono mordere ed essere pericolosi. In realtà sono i poveri oranghi che devono temere l’uomo, ed è questo che i rangers cercano di insegnare loro per evitare che vengano di nuovo catturati dai cacciatori di frodo.

Ultimo a comparire sulla scena e’ un maschio. Ci raccontano che e’ sempre vissuto allo stato brado, ma a causa del forte disboscamento in atto, gli oranghi della sua dimensione faticano a trovare il quantitativo di cibo necessario per la loro sopravvivenza (5kg di frutti al di) e quindi sono costretti ad accettare il cibo dall’uomo. E’ maestoso, peserà almeno 150kg, e non sembra gradire molto l’intrusione di estranei nel suo territorio. Mangia in fretta qualche casco di banane poi con un grugnito se ne ritorna sulle cime degli alberi.

Nel pomeriggio proseguiamo il nostro viaggio per raggiungere il terzo campo che si trova su una diramazione del fiume. A monte della diramazione di sinistra c’è una grande miniera d’oro, che purtroppo scarica tutti i detriti misti a mercurio (serve per separare l’oro dagli altri minerali) nel fiume.

Il colore dell’acqua e’ cambiato da marrone a nero e noi veramente non associamo nessun dei due colori all’acqua pulita.  Il caldo soffocante comunque  ci spinge a buttarci in acqua nonostante il colore ben poco invitante e il coccodrillo avvistato arrivando. L’acqua è fresca e sembra di fare il bagno nella coca cola!

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Visitiamo il campo dove c’è una femmina di orango con il suo piccolo accovacciata su un albero di rambutan che si sgranocchia i dolci frutti. Il piccolo piange e il ranger ci spiega che la madre e’ adottiva e il piccolo non si e’ ancora adattato alla vita nella foresta.

La sera dopo cena l’equipaggio si scatena. Il tutto inizia con la richiesta di mostrarci una danza dayak, la popolazione autoctona della zona. La danza e’ basata sull’imitazione del rituale di corteggiamento delle gru e tutti noi siamo chiamati a provare. Poi viene acceso lo stereo con musica disco e la danza si scatena. Quasi tutti finiscono in acqua.

Venerdì

Massacrante camminata di cinque ore nella foresta, con il fango alle caviglie, alla ricerca degli oranghi selvaggi. Ci accompagna un ragazzo dayak che è il nipote del marito dayak della canadese fondatrice del parco nazionale e maggiore conoscitrice mondiali degli oranghi.

Il ragazzo percorre questi e altri sentieri tutti i giorni per accompagnare i ricercatori che studiano gli oranghi. Partono alle tre del mattino e si accampano spesso per la notte sotto l’albero sul quale avvistano l’orango. Oggi è il suo giorno libero e ha deciso di accompagnarci. Camminando ci racconta (tradotto da Jean) molte cose sulla vita di questi docili animali, ma anche sulle proprietà curative delle piante che incontriamo lungo il tragitto.

Un tonfo richiama la sua attenzione, si allontana dal sentiero per poi tornar a chiamarci. E’ un maschio adulto e se ne sta comodamente seduto su uno degli alberi più alti. Ci guarda per niente spaventato con un’espressione sorniona e umana. Mangia delle bacche e sembra divertirsi a sputarci i semi dall’alto.

Quando ritorniamo dal nostro trekking siamo tutti malconci. Sudati, pieni di punture di zanzare, con i jeans tutti infangati, ci si sono rotte persino le scarpe. Annalisa ha una grande macchia rossa sotto il ginocchio, non se ne era accorta fino a quando arrivando al campo qualcuno ha indicato la sua gamba dicendo “sanguisuga !”.

La guida dayak, invece e’ perfetto ancora con la piega nei pantaloni e senza il minimo segno di fatica. La pioggia pomeridiana che ci accompagna durante la discesa del fiume segna la fine della nostra gita.

E’ un piacere ritornare nell’intimità della nostra barca, che per fortuna è esattamente dove e come l’abbiamo lasciata.

Sabato

Non abbiamo abbastanza rupie per pagare il tour, a Kumai è tutto chiuso quindi andiamo a Pangkalanbun nella speranza di riuscire a cambiare un po’ di dollari.

Oggi è giornata di mercato e la città è molto affollata. Giriamo sotto il sole cocente alla ricerca di una banca per cambiare. Ne troviamo due, ma sono chiuse e hanno gli ATM (gli sportelli automatici) non funzionanti. Proviamo in un albergo e, anche se con un cambio non troppo favorevole, riusciamo finalmente a cambiare. Torniamo a Kumai, anche qui c’è il mercato e non resistiamo, compriamo 3 chili di gamberi per due dollari e poi finiamo a passare il pomeriggio a pulirli.

Per cena invitiamo Sonny e Margy per un piatto di pasta con i gamberi.